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25.08.2020

Sport

| Olimpiadi

L’ultimo tedoforo. Sessant’anni fa l’Olimpiade di Roma

25 agosto: è il giorno in cui si svolse la cerimonia inaugurale dei Giochi della XVII Olimpiade. L'atleta che accese il braciere proveniva dalla scuola e dallo sport di base. Il ricordo di Giancarlo Peris…

(Peris, oggi, con la torcia olimpica e una foto di quella interminabile salita verso il braciere posizionato nella Tribuna Tevere dello Stadio Olimpico. 92 scalini di emozioni intense…)

“…Il vociare allegro e rimbombante nel sottopassaggio del Foro Italico, l’uscita degli atleti per la Cerimonia di Apertura… Quegli enormi atleti australiani che vociando e cantando festeggiavano e mi sollevavano in aria quasi tirandomi dall’uno all’altro… All’epoca pesavo scarsi 60 chili… Ecco, solo in quel preciso momento ho lasciato che l’emozione del ruolo che avevo avuto poco prima mi invadesse”: Peris racconta le sue emozioni… Quelle dell'ultimo tedoforo. L'uomo che ha acceso la fiaccola in nome di Olimpia e dello sport. 
 

La torcia prende vita da un braciere nel bosco di Olimpia. Parte il primo tedoforo: è Penaghiotis Epitropoulos che, durante i Giochi, gareggia nel decathlon, disciplina dell’atletica leggera che contempla dieci gare di diverse specialità. e non è un caso che questa sia stata la disciplina prescelta.
Dalla Grecia a Roma si danno il cambio 1200 tedofori. 
I 1199 italiani, sono reclutati tra gli iscritti alle società sportive e tra gli studenti delle scuole delle 15 province interessate al passaggio della staffetta. Nel 1959 la Commissione Torcia Olimpica si mette alla ricerca dei corridori più allenati. I ragazzi selezionati hanno tra i 18 e i 23 anni. Per diventare tedoforo è necessario superare una prova: bisogna percorrere un chilometro e mezzo in 5 minuti e 15 secondi. Alle 17,29 l’ultimo tedoforo, Giancarlo Peris, un ragazzino di 19 anni, di Civitavecchia, vincitore dei campionati studenteschi. imbocca il sottopassaggio dell’Olimpico e fa il suo ingresso nello stadio. Dopo aver girato attorno al campo, accende il tripode. I Giochi di Roma ora possono cominciare…

Peris, i suoi ricordi…
“Certo, ricordo tutto benissimo: gli indumenti bianchi, il ruggire dello Stadio Olimpico, la torcia portata alta, la salita dei 92 gradini, la piattaforma del tripode e l’accensione. In quei momenti però dovevo mantenere la mante fredda: il mondo mi stava guardando e io ne ero consapevole; non potevo commettere errori; non potevo permettermi che alcuna emozione prendesse il sopravvento. Solo dopo, a qualche minuto di distanza, ho potuto rilassarmi e abbandonarmi all’emozione; le grida di gioia degli atleti australiani sono il primo ricordo di emozione felice che ho di quel giorno. In fondo è stato un po’ come il gesto atletico in una gara importante: non puoi emozionarti mentre lo compi, devi solo freddamente concentrarti sull’obiettivo e spingere fino all’impossibile; solo dopo puoi riprendere i contatti col mondo e con la parte più emozionale di te”.

Era 25 agosto 1960. La fiaccola olimpica arrivò a Roma portata da una staffetta di migliaia di atleti di tutti i paesi; sbarcata in Sicilia proveniente da Olimpia, aveva risalito la penisola, tra la curiosità e le aspettative della gente. L’onore di accendere il braciere nello Stadio Olimpico, toccò a uno studente diciannovenne di Civitavecchia, vincitore ai campionati studenteschi: Giancarlo Peris.

Partiamo dalla vittoria ai quei campionati sportivi studenteschi di della provincia di Roma. Sapeva già di correre anche per diventare l’ultimo tedoforo o le venne comunicato dopo?
“Quell’anno ero già nella Nazionale giovanile e prima ancora di fare la corsa che mi ha dato la possibilità di portare la torcia, girava questa strana voce, ma io non gli ho dato peso credendo fino alla fine che si trattasse solo di dicerie e che sarebbe stato scelto qualcuno più in vista di me, qualcuno che avesse un tratto più internazionale; quindi corsi semplicemente per il risultato sportivo che mi ero prefissato. In realtà, forse, in quel momento l’Italia scarseggiava di mezzofondisti di rilievo internazionale: Beccali, che aveva vinto alle Olimpiadi di Los Angeles nel ‘32, era probabilmente troppo anziano; ci voleva un giovane che rappresentasse l’Italia che stava risorgendo, quell’Italia che non era ancora del tutto fuori dalla crisi post II Guerra Mondiale, ma che riponeva le sue speranze di ricostruzione nei giovani; per questo il CIO voleva per il ruolo di ultimo tedoforo un giovane e promettente atleta che simboleggiasse la speranza e il futuro e sottolineasse come la ricostruzione dello sport italiano fosse partita dalla scuola, proprio attraverso l’istituzione dei campionati studenteschi. Così, le voci divennero realtà un paio di settimane prima dell’evento: mi fu ufficialmente comunicato il mio ruolo e, rompendo la tradizione che voleva segreto il nome dell’ultimo tedoforo fino alla fine, fu comunicato anche al mondo intero”.
 
E così la scelta ricadde su di lei: mezzofondista diciannovenne appassionato, nato a Civitavecchia, che aveva stabilito il record studentesco italiano nei 1500 metri e non partecipò come atleta alle Olimpiadi perché troppo giovane, ma divenne di diritto l’ultimo portatore della fiaccola: la torcia passò nelle sue mani dopo essere stata trasmessa da 1.259 tedofori per 2.750 km.
“Avrei di gran lunga preferito partecipare alle Olimpiadi come atleta, anche a costo di non ottenere risultati di rilievo, ma ero troppo giovane, avevo appena fatto l’esame di maturità e il ruolo di tedoforo mi ha comunque donato una sorta di immortalità: il giorno dopo ero in prima pagina su tutti i giornali del mondo e ancora oggi mi stupisco ogni volta che digito il mio nome su internet. Le commemorazioni di quel momento tornano più volte a celebrare un’Olimpiade che fu eccezionale; l’ultima proprio in questi giorni in cui mi sono recato in Sicilia per ricordare lo sbarco della fiaccola a Siracusa: alcuni dei tedofori dell’epoca erano presenti e, proprio come allora, io ho percorso l’ultimo tratto (stavolta in barca) che mi ha condotto al tripode. L’emozione è sempre grande: oggi forse più di ieri perché libera dal peso della responsabilità. E poi, negli anni, ci sono state mille altre occasioni: nel 2010, a 50 anni dall’Olimpiade del 1960, ho partecipato alle celebrazioni della ricorrenza accendendo di nuovo un simbolico braciere ed ho addirittura potuto vedere la mia immagine riprodotta su un francobollo commemorativo dei Giochi di Roma realizzato per l’occasione dalle Poste Italiane! E poi nel 2016 ho dato il via al Giubileo con gli Sportivi accendendone la fiamma…”.

 

 
Il viaggio della fiaccola

La prima parte del viaggio della fiaccola si svolge in territorio ellenico. Olimpia, Pirgo, Patrasso, Corinto, Magara, Eleusi, Atene. 
Il primo tedoforo è Penaghiotis Epitropoulos, che durante i Giochi prende parte alle gare di decathlon, disciplina dell’atletica leggera che contempla dieci gare di diverse specialità.
Dallo stadio Panatenaico della capitale la fiaccola continua l’attraversata alla volta del porticciolo di Turcolimano, a Falero. Qui si imbarca e raggiunge l’Italia. Scende a Siracusa che, fondata nel 734 a. C, può essere considerata, al pari di Naxos, la prima colonia greca in Sicilia.
A raccoglierla, un mito degli arbitri d’allora, Concetto Lo Bello che fu anche fonte di ispirazione per un film di Lando Buzzanca.
La torcia, a questo punto, risale la costa ionica siciliana e calabrese e poi quella tirrenica della Campania e del Lazio.

Tocca alcune località che un tempo erano stanziamenti greci della Sicilia e della Magna Grecia. Saluta Siracusa e passa a Lentini, Naxos, Messina, Reggio Calabria – raccontando il mito di Cariddi e del fiume Halex – e Locri, che nel 660 a. C diede alla sua gente e all’intera Grecia il primo Codice di leggi scritte. La fiaccola, poi, passa a Crotone, Sibari, Siri, Metaponto, Taranto, il maggior centro della Magna Grecia, Maratea e Potenza.

La fiamma olimpica, successivamente, fa il suo ingresso in Campania: prima l’antichissima Poseidonia sul Mar Tirreno, oggi chiamata Paestum, Pompei, Ercolano e Napoli. Percorre le strade che portano all’Acropoli di Cuma e quelle che costeggiano il Lago Averno (Pozzuoli). E poi il Lazio…  
Da Olimpia a Roma si danno il cambio 1200 tedofori.
 

 

 
Tornando al 1960, immagino abbia fatto delle prove prima dell’evento. 
“Si, certo e feci cambiare tutti i tempi. Pretendevano che percorressi quei 360 metri talmente lentamente da impiegare 5 minuti! Impossibile. Glielo dissi e credo di aver effettivamente impiegato non più di un minuto e mezzo o due. E’ ancora vivo in me il ricordo del sottopassaggio, il rosso della terra battuta della pista: la stessa terra che incontravo ogni volta nelle gare. E poi i gradini: 92. Con la freddezza della programmazione che si deve avere in un evento del genere, li avevo contati proprio il giorno prima”.
 
Ed oggi?
"Mi rendo conto di essere in qualche modo divenuto immortale. Poi, ogni volta che vado su internet e scrivo il mio nome…".

Come ha vissuto quei 350 metri? che cosa ha sentito?
"Non pensavo a niente. Solamente a fare bene quello che era il mio compito. Il mio era l’atto conclusivo del saluto al simbolo quello delle Olimpiadi. Non lo vivevo come un evento mondano. Io ho fatto di tutto per cercare di rimanere lucido, perché in quei casi non si può essere travolti dall’emozione. La tensione c’era. Sbagliare sarebbe stato farlo davanti tutto il mondo. Sentivo un ruggito di gente intorno a me".

Cosa vedeva mentre correva? Mi descrive il percorso?
"Dal sottopassaggio dell’Olimpico, giro di pista diciamo ¾ perché poi arrivati alla tribuna Tevere dovevo salire 92 gradini e lì c’era il tripode… Si, 92 gradini. Quella che vedevo meglio era la pista rossa. La pista di terrabattuta, tessinolite. Io ho fatto gare solo su quel tipo di pista. Poi è arrivato il tartan”.

La scelta che fu fatta all’epoca, singolare ma assennata, ci riporta all’argomento a cui si è ispirata che è quello dello sport e, in particolare, allo sport di base al quale venne volutamente data rilevanza in quell’occasione.
“Come sappiamo, durante il Ventennio lo sport assunse un’importanza che mai aveva avuto prima, ma la guerra aveva azzerato praticamente tutto e la ricostruzione partì proprio dalla scuola e dai campionati studenteschi. Purtroppo questa ripartenza di slancio ha  perso spinta in Italia nel corso degli anni; all’estero ha continuato la sua corsa e oggi i campionati universitari hanno una loro grande importanza e lo sport ha nelle scuole e nei college un ruolo di primo piano; da noi si è un po’ perso quell’entusiasmo iniziale e oggi c’è di nuovo bisogno di ricostruire. Bisognerebbe tornare a una pratica seria a scuola indipendentemente dalla creazione di campioni: il movimento fisico fa bene anche senza bisogno di raggiungere livelli di eccellenza; lo sport di base è un argomento serissimo ed è la prima cosa a cui pensare per la salute, prima ancora che ai grandi risultati; se poi da questo vengono fuori delle realtà importanti, tanto di guadagnato”. 
 
Dopo quell’esperienza alle Olimpiadi del ’60, lei ha conseguito la laurea in Lettere, ha insegnato come professore di Italiano e Storia negli istituti tecnici della sua cittadina ed è stato a lungo allenatore di Atletica: chi meglio di lei quindi conosce l’argomento “giovani e sport” o “sport e scuola”?
“Ho insegnato a scuola per 40 anni e, nonostante le mie materie fossero Italiano e Storia, conoscendo il mio passato, venivo sempre coinvolto nelle iniziative sportive scolastiche e nelle selezioni degli atleti e posso affermare che nelle scuole c’era più attenzione allo sport nel passato : oggi abbiamo bisogno di un ritorno. Al di fuori delle scuole, paradossalmente, abbiamo una diffusione dello sport più ampia rispetto al passato, ma contemporaneamente abbiamo un minor numero di atleti che giungono ai vertici; questo avviene perché sempre meno sono i soggetti che posseggono la tenuta mentale per poter raggiungere gli apici: per fare certi sport come il mezzo fondo ci vuole un cervello quasi da fissati, la forza di colui che vuole giungere all’obiettivo, costi quel che costi, altrimenti non si riesce neanche ad arrivare alle prime categorie, men che mai al livello di campioni. Diciamo quindi che tanti partono, ma davvero pochissimi arrivano. E questo, se da una parte penalizza lo sport di vertice, dall’altra restituisce valore  a quello di base: la diffusione della pratica sportiva non può che giovare alla salute di tutti”.
 
Che mondo è quello delle Olimpiadi? 
“E’ una sorta di mondo parallelo, sicuramente migliore di quello in cui viviamo; nel nostro mondo in cui ogni scusa è buona per ammazzarsi, le Olimpiadi hanno azzerato le differenze: sono il galà più bello per l'umanità, quello che consente di dimenticare le differenze di razza, carnagione, sesso e denaro e chiede al mondo di competere pacificamente e sfidare il limite umano. E’ proprio un mondo a parte”.
 
In quest’ottica, il Covid ha fatto un ulteriore enorme danno procrastinando le Olimpiadi. 
“Sicuramente, ma, a mio avviso, pur non essendo un medico, credo che la decisione sia stata corretta. Si tratta certamente di una risoluzione senza precedenti visto che le Olimpiadi si sono sempre svolte e che solo una guerra ha potuto fermarle; ma il mondo cambia e, con esso, stavolta devo dire per fortuna, cambia il modo di affrontare le cose; una volta, di fronte a un’epidemia, i contagiati venivano lasciati morire e venivano addirittura bruciati per eliminare il problema e impedire il contagio. Oggi ci siamo difesi con un lockdown e con provvedimenti drastici come quello di rimandare le Olimpiadi. L’isolamento, certo, ci ha distrutto tutti, ma credo sia stato giusto ed efficace. Purtroppo negli ultimi giorni sembra che alcuni dei nostri sforzi si stiano vanificando a causa di comportamenti troppo leggeri”.
 

Oggi, 60 anni dopo, come vede la sua vita? 
“La mia vita nello sport ha proseguito come allenatore perché, dopo essere stato nella nazionale giovanile e ad un passo dall’entrare nel novero dei campioni dell’epoca, ho cominciato ad avere dolori ad un ginocchio; ho voluto continuare ad allenarmi, soprattutto con le prove in salita e questo ha fatto peggiorare la situazione costringendomi a lasciare la carriera di atleta. Sono tornato a Roma, questa volta non come atleta, ma come studente: mi sono laureato all’università La Sapienza e in seguito ho insegnato italiano e storia alle scuole superiori a Civitavecchia. Tutt’ora scrivo sonetti in romanesco che pubblico quasi quotidianamente su Facebook. Mi sono sposato 2 volte e ho avuto due figli di cui uno, oggi, mi impedisce di praticare la Vela, sport che adoro, avendomi “scippato” la barca per andarsene a zonzo nell’Egeo!”.

 

 
Un'olimpiade che stupì il Mondo 
Era l’Italia del boom economico, quella dei mitici anni ’60 che videro la luce con un’Olimpiade ancora oggi ricordata per l’eccezionalità dei suoi luoghi, descritti da una Città Eterna che il mondo identificava ancora con quella di “Vacanze Romane”, nell’anno in cui Fellini regalava al pianeta “La Dolce Vita”; è la Roma di piazza Navona, quella delle Lambrette con le ragazze sedute all’amazzone, i capelli raccolti sotto un foulard. L’ombra della guerra non era ancora svanita lasciando strascichi di povertà, ma la voglia di riscatto pervadeva la popolazione: la trasmissione “Non è mai troppo tardi”, organizzata col sostegno del Ministero della Pubblica Istruzione, insegnava a leggere e scrivere agli ancora troppi analfabeti; si riscoprivano lo sport e la felicità del mare la domenica. La corrente cinematografica del momento era il Neorealismo: Visconti, De Sica, Rossellini, Germi raccontavano sul grande schermo l’Italia ordinaria, attirando le attenzioni del cinema mondiale. E’ la Roma che vede la nascita dei “paparazzi” impegnati a rincorrere le dive di Cinecittà che popolavano via Veneto, Piazza di Siena e lo Stadio Olimpico.

In questo clima frizzante di voglia di rinascita, l’Olimpiade del 1960 raggiunge degli standard organizzativi impensabili per l’epoca, ma forse anche per oggi: per questo evento nascono intere zone della Capitale come l’Eur, il Flaminio e l’Acqua Acetosa e per questo stesso evento viene coniata l’espressione “miracolo italiano”; l’apertura avviene accogliendo la fiaccola in luoghi unici e noti come tali a tutto il mondo: le vie consolari ed Campidoglio e riceve la pubblica benedizione del Papa. 
Nel nuovissimo Stadio Olimpico, vestito a festa, il 25 agosto 1960, 5338 atleti di 84 nazioni, a piedi dal villaggio Olimpico, entrano per la cerimonia inaugurale, e, alle 17.30, tocca a Giancarlo Peris accendere la fiaccola. La struttura costituisce il fiore all’occhiello degli impianti della XVII Olimpiade: viene ultimato col nome di Stadio dei Cipressi a causa del gran numero di questi alberi, piantato a separarlo dalle colline di Macchia Madama; gradinate in marmo di Carrara e una destinazione pluridisciplina. 

Nel dopoguerra i lavori del Foro Italico erano ripresi proprio in vista dei Giochi olimpici con un conseguente ampliamento dello stadio. L’assetto definitivo è modernissimo per l’epoca: tabelloni elettrici, acqua riscaldata da una potente centrale elettrica; e poi lo Stadio dei Marmi circondato da 60 sculture marmoree di 4 metri, lo Stadio del Nuoto con l’acqua mantenuta costantemente tra i 22 e i 24 gradi; a questi si aggiungono l’Acqua Acetosa, teatro delle prime Paralimpiadi, lo stadio Flaminio, il Palazzetto dello Sport, il Villaggio Olimpico, il poligono di Tor di Quinto; e poi Piazza di Siena a Villa Borghese e i Pratoni del Vivaro ai Castelli Romani per il ritorno della grande equitazione italiana; la Basilica di Massenzio, le Terme di Caracalla e le vie della Città Eterna, luoghi storici adibiti a teatro di varie discipline, per lo stupore del mondo in visibilio; le Tre Fontane, La Piscina delle Rose, il Lago di Albano, sede già dal 1903 di importanti competizioni di canottaggio e canoa e una miriade di altri impianti sussidiari.

Rimarranno scritte nei libri di storia dello sport le imprese del pugile Muhammad Alì (al secolo Marcellus Clay), di Abebe Bikila che, tagliando, scalzo, il traguardo sotto l’Arco di Costantino, staccò tutti e creò un mito; e poi Don Bragg nel salto con l’asta noto per aver interpretato Tarzan al cinema. Gli Italiani, con 280 atleti, guadagnarono in quell’edizione 13 ori, 10 argenti e 13 bronzi, dando luogo alle leggende nostrane del Settebello (la nazionale di pallanuoto), di Edoardo Mangiarotti che, con l’invincibile squadra di scherma, stabilì il record di medaglie olimpiche raggiunte, di Livio Berruti che staccò tutti nei 200 metri, del pugile istriano Nino Benvenuti, dei fratelli D’Inzeo che fecero la storia dell’equitazione italiana e di Sante Gaiardoni che vinse nel ciclismo, unico tra gli italiani, 2 medaglie d’oro. 

L’evento si concluse con l’Italia in terza posizione con un totale di 36 medaglie, dietro Stati Uniti e Unione Sovietica.  Appena un mese dopo ebbero luogo presso gli impianti dell’Acqua Acetosa le prime Paralimpiadi della storia con 400 atleti in rappresentanza di 21 nazioni: l’Italia fu il paese che vinse il maggior numero di medaglie.
 

 

 
Scuola, fucina di campioni
I Campionati  Studenteschi, hanno rappresentato un percorso di avviamento alla pratica sportiva e di selezione in Atletica Leggera e Corsa campestre riservato agli studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado, statali e paritarie, regolarmente iscritti e frequentanti. Nati sotto l’egida del CONI e del Ministero della Pubblica Istruzione negli Anni '50, laurearono diversi campioni attraverso un capillare sistema di reclutamento e selezione. Lo stesso Giancarlo Peris, ultimo tedoforo dell’Olimpiade di Roma nel 1960, a cui toccò l’onore di percorrere l’ultimo tratto con la fiaccola durante la cerimonia di apertura ed accendere il braciere, giunse a questo ruolo in quanto vincitore della gara dei 1500 metri ai Campionati  Studenteschi  della provincia di Roma. Il secondo classificato di quella stessa gara ebbe il ruolo di primo tedoforo frazionista del tratto dal Campidoglio allo Stadio Olimpico ovvero trasportò di diritto la torcia olimpica per il primo tratto che, partendo dal Campidoglio, attraverso più segmenti, giungeva allo Stadio Olimpico.
La fucina da cui all’epoca uscivano questi e molti altri campioni era semplicemente la scuola. Il metodo con cui gli studenti venivano coinvolti era molto accattivante ed incentivato dal sistema scolastico stesso: attraverso un progressivo numero di selezioni attuate mediante dei campionati interni alle scuole stesse, si giungeva alla selezione dei migliori ai quali era consentito partecipare alle finali provinciali. 

"L’orgoglio di ogni scuola era quello di partecipare con tanti atleti e primeggiare sfoggiando i colori delle proprie maglie e per raggiungere questo risultato veniva coinvolta nell’organizzazione tutta la scuola". Questa l’opinione di Sandro Giorgi, Responsabile del Settore Atletica di ASI. Prima ha fatto parte della commissione FIDAL – Ministero della Pubblica Istruzione – per la programmazione delle attività e per definire i regolamenti dei campionati studenteschi.

"Per fare un esempio della portata di questo movimento, la finale provinciale vinta da Giancarlo Peris che gli diede diritto ad accendere la fiamma olimpica, fu fatta allo Stadio Olimpico con la partecipazione di ben 40.000 spettatori  tra cui tutti gli studenti delle scuole che avevano partecipato alle selezioni. Questo fornisce un’idea precisa del peso e della considerazione che era data all’epoca al ruolo dello sport all’interno del sistema scolastico italiano.
Un altro esempio della considerazione riservata allo sport giovanile nel nostro recente passato
– prosegue Giorgi – è costituita dall’iniziativa dei Campi Scuola: avviato da Bruno Zauli, Presidente della Federazione Italiana di atletica leggera e Segretario Generale del CONI, il progetto prevedeva  di costruire impianti per l’atletica in ogni provincia d’Italia per promuovere e diffondere la pratica sportiva nelle scuole.
La mancanza di adeguati fondi ha purtroppo soffocato la partecipazione ai Campionati  Studenteschi, già fiaccati dal cambio di passo delle selezioni rese meno accattivanti negli ultimi anni. La mentalità della scuola di oggi non è quella di selezionare  i migliori atleti quanto piuttosto quella di coinvolgere studenti in maniera generica. 
Anche per i ragazzi le cose oggi sono molto cambiate: l’accesso alle attività sportive in passato avveniva intorno ai 14/15 anni, età che per i giovani atleti di oggi è molto tarda: a quell’età hanno già sudato anni e fatto in tempo a disamorarsi, senza contare che numerose sono oggi le distrazioni legate proprio a quel periodo di crescita: le prime socializzazioni, l’accesso ai social…".

In questo Sandro Giorgi è molto chiaro e aggiunge concludendo: “All’epoca venire a fare la finale a Roma era il sogno per ognuno, anche considerato che molti  potevano venire da zone poco urbanizzate. Oggi è molto più alla portata di tutti”.  
 

 

[  Chiara Minelli  ]

 

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