Doping di Stato

La Russia, è ormai certo, per anni ha somministrato ai propri atleti sostanze illecite con la connivenza dello Stato che dalle vittorie degli atleti traeva enormi ritorni di immagine. Ma non si tratta di un caso isolato. Sono molti i Governi che hanno usato e strumentalizzato lo sport per i propri fini propagandistici. 

Sul magazine ASI Primato una riflessione di Marco Cochi per comprendere meglio il problema.
 


IL DOPING DI STATO IN RUSSIA. IL DOSSIER WADA 2016

Uno dei casi più eclatanti e recenti di quanto lo sport sia legato al potere politico è la vicenda del doping di Stato in Russia. Un dossier di 320 pagine della WADA (Agenzia mondiale antidoping), pubblicato il 9 novembre 2015, accusa in primis il ministero dello sport russo per connivenza con l’FSB (erede del più noto KGB) che insieme a organismi minori, si sono attivati su più piani per un sistematico ricorso a pratiche chimiche di miglioramento delle prestazioni dei propri atleti. 

Secondo il rapporto, gli sportivi russi sono stati coperti dall’apparato politico della Federazione russa che ha favorito il ricorso al doping in più discipline per raggiungere il massimo dell’efficienza nelle manifestazioni ospitate in casa, come i Giochi invernali di Sochi 2014 e i Mondiali di nuoto di Kazan dell’anno scorso.
Nella relazione è anche spiegato che il problema va oltre Sochi e Kazan e sarebbe sistematicamente generalizzato a 312 casi, che hanno coinvolto tutto lo sport russo. Un sistema iniziato alle Olimpiadi di Vancouver nel 2010 che ha avuto effetti anche ai Giochi di Londra 2012 e ai mondiali di atletica di Mosca 2013.
Tutti ricordano come negli anni della guerra fredda il doping era d’uso nei Paesi dell’Est Europa e la pratica si è trascinata fino ai giorni nostri per dimostrare che la Russia dei Giochi di Sochi non fosse solo tecnologia, impianti straordinari e organizzazione perfetta, ma anche terra di grandi campioni, però non autentici.

COREA DEL NORD: LO SPORT PIEGATO ALLA POLITICA

Quanto lo sport e la politica siano indissolubilmente legati, lo dimostra quello che avviene in uno dei più tirannici degli odierni regimi, quello della Corea del Nord. Lo testimonia l’inviato della BBC Tim Hartley, che nel maggio 2013 ha raccontato come si svolge un incontro di calcio nel Regno Eremita (possibile leggere l’articolo qui).
Hartley descrive un match disputato allo stadio Kim II-sung, inaugurato nel lontano 1926 durante l’occupazione giapponese della Corea, quando era conosciuto come stadio Girimri.

Il cronista riporta di una partita disputata in un’atmosfera surreale enormemente differente da quella che caratterizza gli incontri nel resto del mondo: “Lo stadio intitolato al padre della patria è un impianto da 50mila posti per accedere al quale non ci sono né code né tornelli. Sugli spalti siedono in silenzio tombale file di uomini con indosso identici abiti scuri e cravatte rosse e nessuno porta bandiere o sciarpe in vista, però tutti gli spettatori hanno una spilla appuntata sul petto, che non ritrae il distintivo della squadra locale, il Pyongyang FC, ma l’immagine del grande leader Kim II-Sung. Sorprendentemente nessuno ha fiatato né tantomeno esultato, quando il Pyongyang ha infilato un calcio di rigore nella rete degli avversari dell’Amrokgang”.

Il match si concluse poi con la vittoria della squadra di casa, ma Tim Hartley riporta che sarebbe stato impossibile capirlo dalla reazione della folla, che per tutto l’incontro non si è mai scomposta. Tantomeno nessuna emozione traspariva sui volti dei soldati e dei fedeli di partito mentre marciavano in silenzio fuori lo stadio.

L’essenza della propaganda calcistica nordcoreana trapela tutta in un intervista rilasciata nel maggio 2014 al quotidiano britannico “The Guardian” dal portiere del Pyongyang City e della Nazionale, RiMyong-guk .

L’estremo difensore racconta: “La finale di Coppa in Corea del Nord non ha eguali, metà dei posti nello stadio sono per i civili, che in estate indossano tutti cappelli bianchi, camicie bianche e cravatte rosse, mentre l’altra metà è per i soldati. Gli steward controllano i tifosi con delle bandierine, istruendoli su quando cantare o acclamare e dopo ogni gol la folla applaude all’unisono. Poi, se il leader supremo è presente tutta la squadra che ha segnato si precipita dinnanzi a lui per salutarlo”.

ANCHE IL NAZISMO USO' LO SPORT A FINI POLITICI

Un altro regime che ha utilizzato lo sport per esaltare la propria immagine è stato quello nazista. Una delle prove più evidenti di quanto la pratica sportiva fosse funzionale all’affermazione del popolo ariano è il famoso film “Olympia”, il primo in assoluto sulle Olimpiadi.

Il lungometraggio fu girato dalla regista tedesca Leni Riefenstahl per documentare i Giochi di Berlino del 1936, ma anche per riflettere sul loro significato e celebrare i numerosi successi sportivi conseguiti durante la manifestazione dagli atleti tedeschi.

Gli ideologi del Terzo Reich commissionarono la pellicola alla cineasta tedesca nella consapevolezza che i Giochi potevano diventare un formidabile mezzo di propaganda sul piano politico e un palcoscenico ideale per mostrare la superiorità della razza ariana rispetto alle altre.
Il documentario riuscì pienamente nel primo intento sperimentando innovative tecniche di ripresa. La sua realizzazione richiese quasi due anni durante i quali la Riefenstahl dovette visionare i più di 400mila metri di pellicola di girato, selezionare le scene del film e montarle.
La propaganda del regime nazista condizionò anche il calcio. Già nel 1933, pochi mesi dopo l’avvento di Hitler al potere, furono esclusi dal campionato tedesco tutti i giocatori, proprietari di club, sponsor e giornalisti di origine ebraica.

Emma Anspach e HilahAlmog, nel saggio “Nazi Philosophy and Sport”, scritto nel 2009, osservano che il calcio fu utilizzato strategicamente da Hitler anche per promuovere la sua politica. Secondo i due studiosi, l’ascesa di Hitler, cominciata nel 1924, coincise con l’affermazione del football come uno degli sport più popolari in Germania, mentre, dopo l’epurazione degli ebrei, la ‘DeutscherFussball-Bund’ (DFB, la nazionale tedesca) diventò uno strumento per trasmettere il sostegno del popolo germanico al regime nazista.

Diverse regole furono introdotte dalla DFB dell’epoca per sostenere il rafforzamento del regime, come l’obbligo per le squadre avversarie di eseguire il saluto nazista prima di ogni partita. In alcune occasioni, però, tale imposizione fu causa di problemi, come accadde il 14 maggio del 1938, quando la Nazionale di calcio inglese si trovò a giocare un amichevole contro la Germania davanti ai centomila spettatori che gremivano l’Olympiastadion di Berlino.

Alla partita erano presenti i più importanti gerarchi nazisti come Hermann Goering, Rudolf Hess e Joseph Goebbels e soprattutto per questo l’incontro avrebbe dovuto aprirsi con una potente celebrazione politica. Così, nei momenti precedenti alla gara, quando furono intonate le prime note dell’inno nazionale tedesco, i giocatori inglesi alzarono le braccia dritte al cielo per il saluto nazista.

Il giornalista sportivo Jim Weeks ha scritto sulle pagine di Vice Sports, che sebbene siano passati quasi ottant’anni, i britannici non hanno mai digerito il diktat del saluto al Fuhrer. Weeks ricorda che i giocatori inglesi erano stati preparati prima della gara rispetto al fatto che avrebbero dovuto eseguire il saluto nazista. Nonostante l’ordine provenisse direttamente dal Foreign Office, la squadra inizialmente intendeva rifiutarsi di elevare le braccia al cielo prima della partita.

I calciatori inglesi furono poi convinti dall’ambasciatore britannico dell’epoca in Germania, Sir Neville Henderson, che insieme all’allora segretario della Football Association inglese Sir Stanley Rous (dal 1961 al 1974 presidente della FIFA), ricordarono agli atleti che il loro diniego poteva influire sull’andamento delle relazioni anglo-tedesche, già logorate dall’Anschluss e dalla crisi dei Sudeti. 

L’attaccante inglese Stanley Matthews, il primo pallone d’oro della storia, che fu tra i marcatori nella vittoria per 6-3 dell’Inghilterra, ricordò: “Tutti i giocatori dell’Inghilterra erano lividi e totalmente contrari al saluto nazista, me compreso”.

Del resto lo sport è sempre stato fin dalle origini una componente della politica. La riprova è che durante lo svolgimento dei Giochi olimpici nell’antichità le guerre erano sospese. Nell’epoca contemporanea è avvenuto il contrario e le manifestazioni sportive internazionali spesso hanno rappresentato un surrogato ai conflitti armati, come dimostrato dal massacro degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco.

C’è chi vince due volte

I Giochi Olimpici di Rio 2016 sono terminati, ma per molto tempo continueremo a parlare delle donne e degli uomini che con le loro storie si sono resi protagonisti della storia sportiva.
Anticipiamo qui un articolo del magazine ASI Primato, firmato da Donatella Italia, che parla del film del 2013 'Il cammino verso Olimpia' del regista tedesco Niko von Glasow, focomelico, un racconto attraverso cinque grandi esempi di vita sull'essere atleti speciali in procinto di partecipare all’appuntamento di Londra 2012.
 


Le Olimpiadi sono bellissime, l’apoteosi dello Sport che vogliamo con la S maiuscola, immancabile appuntamento ogni quattro anni. Ma allo sport professionistico, quello dei Campioni, c’è anche da raccontare le storie, altrettanto esaltanti, e per molti versi più belle, degli atleti che partecipano, e vincono, alle Paralimpiadi. 

Il regista tedesco Niko von Glasow, focomelico, nel suo film del 2013Il cammino verso Olimpia (titolo originale MeinWegnach Olympia), ci racconta come è essere atleti speciali in procinto di partecipare all’appuntamento di Londra 2012 attraverso cinque grandi esempi di vita. Gente che deve dimostrare di vincere due volte: prima nel condurre una vita normale e poi di poter forzare i propri limiti per arrivare all’eccellenza in un mondo, lo sport, dove è proprio il fisico a fare la differenza.
La filosofia di Glasow, che non ama assolutamente lo sport, è che “le Paraolimpiadi siano strane: i disabili devono continuare a competere per essere normali.”

Sicuramente un punto di vista fuori dal coro, ma che permette alla narrazione di non avere i classici toni compassionevoli. E Glasow compassionevole non lo è, ma ascolta le storie di questi ragazzi forti e orgogliosi che non si sono fermati davanti alle difficoltà ma ne hanno fatto un punto di forza.

Greg Polychronidis, un greco campione di bocce affetto da tetraplegia che ha visto avanzare con gli anni la sua distrofia fino a poter muovere solo il collo e la testa, vive circondato dall’affetto della sua famiglia e le cure del suo assistente. È molto conosciuto in Grecia e ammette, senza falsa modestia, di amare il successo. Le bocce sono la sua vita e ha dell’incredibile la meticolosità con cui indica al suo assistente come dove posizionargli lo scivolo sul quale farà rotolare le bocce. Il regista sembra entrare molto in sintonia con il ragazzo, ammirato da come questo giovane, che all’epoca aveva solo 30 anni, affronta il suo destino di progressiva immobilità.

Matt Stutzman, arciere statunitense nato senza arti superiori, è forse quello che colpisce maggiormente Glasow. Entrambi infatti hanno una disabilità che ha colpito le loro braccia, ma mentre il regista ha delle mani pressoché formate e utilizzabili, l’arciere ha i propri arti inferiori che terminano appena dopo le spalle. Stutzman è nato senza braccia e ha passato la sua vita ad avvalersi dei piedi come se fossero delle mani; guida, scrive al computer, si allena a tirare con l’arco e a sparare con la pistola. Ha una moglie e due biondissimi figli che lo aiutano in tutto.

Scherzosamente Glasow chiede alla signora Stutzman se il marito sfrutti mai la sua disabilità per non aiutare in casa; alla risposta di lei: “oh sì, per non lavare i piatti!” non si può non sorridere. Anche Stutzman, come Polychronidis, ammette candidamente di amare lo sport ed essere felice della popolarità e del denaro che gli arrivano dal successo.

Ma è con le due donne coinvolte, Christiane e Aida, che il regista scava più in profondità e mostra maggiore empatia. La prima è una nuotatrice tedesca; dichiara di non sentirsi “diversa” e che ognuno ha dei problemi da affrontare ogni giorno, i suoi sono solo differenti. Ma più avanti, nel corso del documentario, Christiane ammette di sentire la sua disabilità come un peso, soprattutto quando le persone ridono di lei, senza sapere che ha perso la gamba destra a 5 anni per un tumore. La risposta molto poco politicallycorrect di Glasow è da incorniciare: “E tu buttali in acqua! Affogali!”.

Con la storia di Aida, invece, si affacciano altri problemi oltre alla disabilità: 22enne, nata in Bosnia durante la guerra, è stata adottata a sei anni da una famiglia norvegese. La ragazza vive quindi una doppia diversità: fisica e di origine, ma l’affetto con cui i genitori adottivi osservano questa figlia voluta, cercata e portata in una casa è toccante, bello quanto un’Olimpiade. Il suo allenatore ci racconta che, poiché Aida è l’unica ragazza disabile nella sua palestra (in Norvegia le squadre sono integrate, non ci sono barriere di abilità), risulta essere perfettamente normale come tutti gli altri sportivi che si allenano con lei. Come dire: “non vuoi far sentire un disabile diverso? Trattalo esattamente come fai con le altre persone.” Aida dichiara anche di non aver mai voluto guardare le foto della guerra in Jugoslavia, forse preferisce dimenticare un passato che non le deve appartenere più.

Infine, dopo disabilità provocate da malattie, arriviamo alla squadra ruandese la cui maggior parte dei componenti ha perso le gambe a causa delle mine, retaggio della guerra civile tra Tutsi e Hutu.Qui Glasow allarga l’ambito delle domande e arriva a chiedere di quel conflitto interetnico, ma la risposta dei giocatori è chiara: “Quella è storia, ora qui c’è la nuova generazione e non ci sono più differenze.” E verrebbe da rispondere “Speriamo”.

Il documentario di Glasow accompagna questi cinque grandi esempi di coraggio fino a Londra 2012 raccontando le loro imprese, i loro successi (l’argento di Stutzman e l’oro di Polychronidis) e le loro sconfitte. E per chi non ha conquistato medaglie la soddisfazione di poter esclamare: “Io però sono arrivato fino a qui, e già solo per questo ho vinto due volte”.
Da sottolineare che nel 2008 Niko von Glasowaveva diretto il documentario Nobody’sperfect su undici persone affette da focomelia a causa del farmaco thalidomide, riunite per posare per un calendario. Il film ricevette il premio come miglior documentario al DeutscheFilmprei.

 

Vladi Vardiero, dirigente ASI eletto al comitato regionale veneto della Federazione Triathlon

Vladi Vardiero, responsabile nazionale del Settore nazionale ASI Triathlon, è stato eletto presidente del comitato regionale veneto della Federazione Triathlon.

Con 190 voti e l’82% dei consensi espressi dai dirigenti, atleti e tecnici presenti in assemblea, Vladi Vardiero, già Vice presidente el comitato uscente, rappresentante dell'associazione sportiva affiliata ASI Triathlon Noale, si è imposto così su Alessandro Zennaro, rappresentante del CUS Padova.

Eletti anche i 6 candidati presenti nella squadra di Vardiero, che ha saputo convincere le 27 società presenti aventi diritto al voto con un programma di lavoro che vedrà rivoluzionare i settori giovanile, age group, tecnici e ufficiali di gara.

Presente all’assemblea anche il vice campione paraolimpico Michele Ferrarin e il presidente regionale veneto del CONI Gianfranco Bardelle, il quale ha salutato con piacere l’elezione di Vladi Vardiero che è anche membro della giunta regionale da lui presieduta in qualità di rappresentante dei tecnici.

 

“Il lavoro di collaborazione tra ASI e Fitri portato avanti in questi anni e soprattutto la rete che si è costituita tra le numerose società venete di triathlon che hanno aderito al progetto ASI – ha dichiarato Vardiero – ha dato i suoi frutti. Ora ci troviamo al governo della seconda regione più importante della federazione per numeri di associati e per atleti. Un grande impegno che vedrà ancora ASI protagonista in questa nuova sfida sportiva”.
 

Il presidente ASI  Claudio Barbaro ha manifestato grande apprezzamento per questa elezione, non solo perche' con questa un dirigente di un Ente di Promozione Sportiva e' in condizione di portare un importante controibuto in un soggetto federale importante come Fitri, ma anche perche' dimostra come ASI possa vantare tra la sua classe dirigente i migliori e i piu' preparati.

Diplomati i primi istruttori cinofili

Domenica 16 ottobre si è svolta a Terracina presso la sede dell'associazione sportiva dilettantistica affiliata ASI 'Alca' la consegna dei diplomi e dei tesserini tecnici di Istruttori cinofili di I livello, rilasciati dal Coordinamento di disciplina ASI Attivita' cinofile. 

Tale corso è il primo a giungere a termine tra quelli organizzati dal Coordinamento.

Gli struttori ASI Achille e Giovanni Parisella sono riusciti a trasmettere agli allievi i primi ma, essenziali, insegnamenti necessari per la formazione di tecnici cinofili professionisti. Tutti, nessuno escluso, sono risultati idonei sia nella prova teorica che in quella ben più complicata e importante della pratica.

Alla consegna dei diplomi hanno partecipato oltre ai due istruttori Achille e Giovanni anche il coordinatore nazionale di ASI Attivita' cinofile Riccardo Cavalieri. Gli stessi hanno completato la cerimonia esibendosi in esercizi di disciplina e avvicinamento al cane, utilizzando un cane a loro estraneo. Si sono cosi' dimostrati all'altezza di quanto studiato e imparato.

Otto mondiali consecutivi per Susanna Perrone

L'unica atleta nel mondo dello sport della pesistica olimpica ed in tutte le discipline degli sport masters a vincere 20 Campionati Internazionali tutti di fila e' la tesserata ASI Susana Perrone che si e' aggiudicata l'ottavo titolo mondiale consecutivo con i suoi 3 ori (Strappo, Slancio, Totale) nella W50, facendo il bis quindi con l'ottavo titolo europeo consecutivo, già conquistato a maggio 2016 in Azerbaijan.  
 

Grande l'orgoglio dell'Ente non solo per avere un'atleta di tale livello, ma anche una dirigente molto capace: Susanna Perrone dal 2009 e' anche responsabile nazionale del Settore nazionale ASI Pesistica.

Ottima la gara tecnica con un totale di 130 kg. (57 + 73) e 5 prove valide su 6 ed addirittura con un nuovo Record Mondiale della cat. 69 kg. realizzato per qualche istante e poi annullato nella terza prova di strappo con 62 kg. (foto 2800 da ripresa video) e poi come sempre l'atleta è stata sottoposta in gara anche al controllo Antidoping del CIO.

Loredana Frassati, è entrata in gara con le partenze per classificarsi argento nella W55, cat. fino a 69 kg. (totale 65 kg.) e, pur completando correttamente le altre prove, ha dovuto vedersi annullare 3 tentativi da arbitri decisamente "cavillosi". 

Alessia Milesi, con pochissimi allenamenti sulle spalle, ha svolto una bella gara sempre sul podio (131 kg. totale, 60 + 71) con argento nello strappo e solo bronzo per differenza peso nello Slancio e nel Totale nella W40 cat. fino a 75 kg. 

Nadia Re, in una categoria difficilissima è riuscita a classificarsi al 5° posto con il suo personale di 95 kg. di totale (40 + 55) nella W40 cat. fiino a 53 kg. con 5 prove valide su 6 ed un ottima tecnica di gara per una eclettica campionessa di atletica e di corsa.

Maria Vittoria Sportelli, atleta nazionale che ha deciso di unirsi al Team Italia organizzato dal Settore nazionale ASI Pesi prima della competizione iridata (foto con le atlete n.2550, 2556, 2520) vincendo il titolo nella cat. 53 kg e la Sinclair nella W45 con totale di 120 kg (55 + 65).

In definitiva per la rappresentativa italiana di ASI si e' trattato di una trasferta difficile, ma estremamente positiva, che ha portato i colori azzurri della società ciriacese ancora una volta sui podi iridati nella pesistica, in uno scenario compettitivo molto agguerrito.  Il Campionato mondiale si e' disputato infatti ad altissimo livello con oltre 900 atleti presenti da tutto il mondo, 50 test antidoping effettuati in gara e la partecipazione in pedana di alcuni olimpionici di Rio.