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25.04.2020
Istituzionale
Il Calcio ritrovi il suo cuore. La lettera dei tifosi dell’Atalanta ai giocatori e al Presidente
“Volete giocare? Ogni centesimo, devoluto in beneficenza a chi ha perso il lavoro, a chi ha perso un familiare, a chi ha dovuto chiudere
le proprie attività”.
A provare a difendere lo sport di base, non ci sono solo emendamenti, grida di protesta nei confronti della politica, petizioni. A parlare di chi ha dovuto chiudere le proprie attività e confidare nei 600 euro – sempre che arrivino per tutti e questo è matematicamente più di un lecito dubbio – c’è anche il mondo del Calcio. Non quello dei grandi campioni che, nel rinunciare a uno o due stipendi, sembrano aver fatto il loro. Certo, pandemia e crisi globale hanno risvegliato la retorica dell’indignazione e il Calcio miliardario ne è immediatamente diventato la vittima prescelta. Ma la realtà cambia di poco.
Rimbalza sui media il balletto delle proposte di ripartenza, delle formule magiche cui nessuno si sottrae – dai grandi organismi internazionali ai singoli club – delle ipotesi di stop o calendari salvastagione.
A contribuire a ridare un pizzico di umanità perduta dal dorato mondo del Football ed entrare a gamba tesa sulle discussioni intorno ai campionati, ci pensano ancora una volta i tifosi. Bellissima la lettera degli ultrà della Dea. E’ indirizzata al Presidente Percassi, ai giocatori, ma solo perché serve un francobollo sulla busta, un nome e un indirizzo, quello della sede di Via Tiraboschi. In realtà quelle righe sono per tutto il mondo del Calcio: “Volete giocare? Ogni centesimo devoluto in beneficenza a chi ha perso il lavoro, a chi ha perso un familiare, a chi ha dovuto chiudere le proprie attività”.
“Posso assicurarvi che è molto di più…”. Diceva uno scozzese, famoso in terra inglese, Bill Shankly, una sola Coppa d’Inghilterra, da giocatore, con il Preston ma una luminosa carriera di vittorie con i rossi del Liverpool, da allenatore. La definizione è riferita alla passione che muove i tifosi e considera dinamiche ancora lontane dall'essere definitivamente esplorate. Soprattutto dai Media pronti a sbattere il mostro in prima pagina.
Il tifoso è la faccia più chiacchierata del pallone, quella più sporca e più insana. Bella per gli spettacoli indimenticabili, ma da tenere a debita distanza. Per noi, la parte vera, quella pura, nobile e intramontabile. Quella dei primi curiosi intorno al campo in terra dei pionieri e quella dei tifosi con i cappelli Borsalino e il fazzoletto da agitare al goal, che si chiamava “rete” in tempi in cui gli inglesismi erano mal digeriti. Quella degli appassionati degli Anni ’70 – con il giornale in testa alla moda dei muratori, il panino nella borsa, la camicia sbottonata sulla canottiera e crocefisso – che sfottono i vicini occasionali di posto nel derby e quella dei giovani che cominciano a riconoscersi dietro dieci metri di striscione e che tifano in modo differente dai loro predecessori. Il pubblico vecchia maniera va definitivamente in soffitta sostituito da un modello differente di straordinaria importanza e inaspettata longevità, anche quando, negli Anni ’80, le nuove generazioni conosceranno il cosiddetto “riflusso”, cioè il rifiuto dell’impegno militante che aveva caratterizzato i fratelli maggiori.
Il passato va in pensione e lascia il passo alla Working Class, come si direbbe in Inghilterra, Patria del Calcio e anche del tifo. In curva compaiono grandi bandiere, fumogeni, tamburi per accompagnare i cori finalmente organizzati. Nasce il fenomeno Ultrà che dura fino ad oggi. Brutti, sporchi e cattivi per molti, spesso una ventata di pulizia in un mondo forse troppo sporco per fare troppi paragoni.
Si può chiamare in mille modi: tifo, passione, fede, amore. È quella che c’è negli occhi chiusi di un uomo ipovedente, seduto sugli spalti dello stadio della sua squadra del cuore, il Bohemians 1905. Ha la sciarpa al collo, bastone in mano e cane fedele al suo fianco. È sempre al suo posto, nella tribuna dello Stadio Ďolíček, impianto destinato ad essere abbattuto per far posto a un centro commerciale e salvato proprio da una petizione dei suoi tifosi. Non può vedere le giocate dei suoi eroi a strisce bianche e verdi. Ma può sentirle. "Non si vede bene che col cuore”: ha spiegato così il suo segreto, citando il Piccolo Principe. Perché, nel Calcio, l'essenziale è invisibile agli occhi.
Il tifo non è cieco, al di là dell’apparenza. Ci vede e ci vede bene.
“I migliaia di morti che se ne sono andati da soli ed in silenzio? Il dolore di chi non li ha potuti nemmeno salutare? Quelle colonne di camion militari piene di nonni, figli, genitori, amici le cancelliamo con un colpo di spugna? A voi basterà fare uno spot del tipo “giochiamo per loro” o mettervi un lutto al braccio per sistemarvi la coscienza…”, spiegano nella lettera i tifosi dell’Atalanta che, nel panorama delle curve italiane, hanno la fama di essere tra i più brutti, sporchi e cattivi.
Per loro il campionato è già finito. Ma lo spettacolo deve andare avanti, The show must go on. E allora, almeno accada con la coscienza di un momento epocale.
Sognando di rivedere dietro le maglie dei campioni del cuore, quei numeri in feltro cuciti a mano dalla sarta del club, che era anche cuoca, lavandaia e una voce amica nella sua bottega al campo d’allenamento: oggi, tra il nome del giocatore e lo sponsor, di una linea tecnica avvolgente, è faticoso vedere quel numero, a volte cucito male, ma carico di storia e di ricordi. In molti sembrano scorgere il segno del dollaro.
Diceva Robert De Niro, anche se per noi la voce era quella di Ferruccio Amendola, in un film del 1966, “The Fan”: “Attendo il mio sogno con ansia, emozione. Poi applaudo e mi sbraccio per la mia formazione. È la prima giornata e la mia fedeltà è premiata da un senso di gran voluttà.
Ritorna il mio eroe ed illumina il giorno; dei miei guai per un poco si sfuma il contorno. Egli è grazia, armonia, che esalta lo stadio e riporta i miei giorni e di orgoglio m'irradio.
Dice oggi l'atleta: ‘Io gioco per me’, ci sto male a sentirlo e mi chiedo: ‘Perché?’. Non è il fan, il tifoso che paga il biglietto a far ricco e famoso il suo prediletto? Se gli parlo lui sente, ma, in realtà, non mi ascolta. Mi dimostra freddezza per l'ennesima volta. È attaccato al denaro in un modo inaudito. No, così non va bene, io rivoglio il mio mito!”.
Rimbalza sui media il balletto delle proposte di ripartenza, delle formule magiche cui nessuno si sottrae – dai grandi organismi internazionali ai singoli club – delle ipotesi di stop o calendari salvastagione.
A contribuire a ridare un pizzico di umanità perduta dal dorato mondo del Football ed entrare a gamba tesa sulle discussioni intorno ai campionati, ci pensano ancora una volta i tifosi. Bellissima la lettera degli ultrà della Dea. E’ indirizzata al Presidente Percassi, ai giocatori, ma solo perché serve un francobollo sulla busta, un nome e un indirizzo, quello della sede di Via Tiraboschi. In realtà quelle righe sono per tutto il mondo del Calcio: “Volete giocare? Ogni centesimo devoluto in beneficenza a chi ha perso il lavoro, a chi ha perso un familiare, a chi ha dovuto chiudere le proprie attività”.
“Posso assicurarvi che è molto di più…”. Diceva uno scozzese, famoso in terra inglese, Bill Shankly, una sola Coppa d’Inghilterra, da giocatore, con il Preston ma una luminosa carriera di vittorie con i rossi del Liverpool, da allenatore. La definizione è riferita alla passione che muove i tifosi e considera dinamiche ancora lontane dall'essere definitivamente esplorate. Soprattutto dai Media pronti a sbattere il mostro in prima pagina.
Il tifoso è la faccia più chiacchierata del pallone, quella più sporca e più insana. Bella per gli spettacoli indimenticabili, ma da tenere a debita distanza. Per noi, la parte vera, quella pura, nobile e intramontabile. Quella dei primi curiosi intorno al campo in terra dei pionieri e quella dei tifosi con i cappelli Borsalino e il fazzoletto da agitare al goal, che si chiamava “rete” in tempi in cui gli inglesismi erano mal digeriti. Quella degli appassionati degli Anni ’70 – con il giornale in testa alla moda dei muratori, il panino nella borsa, la camicia sbottonata sulla canottiera e crocefisso – che sfottono i vicini occasionali di posto nel derby e quella dei giovani che cominciano a riconoscersi dietro dieci metri di striscione e che tifano in modo differente dai loro predecessori. Il pubblico vecchia maniera va definitivamente in soffitta sostituito da un modello differente di straordinaria importanza e inaspettata longevità, anche quando, negli Anni ’80, le nuove generazioni conosceranno il cosiddetto “riflusso”, cioè il rifiuto dell’impegno militante che aveva caratterizzato i fratelli maggiori.
Il passato va in pensione e lascia il passo alla Working Class, come si direbbe in Inghilterra, Patria del Calcio e anche del tifo. In curva compaiono grandi bandiere, fumogeni, tamburi per accompagnare i cori finalmente organizzati. Nasce il fenomeno Ultrà che dura fino ad oggi. Brutti, sporchi e cattivi per molti, spesso una ventata di pulizia in un mondo forse troppo sporco per fare troppi paragoni.
Si può chiamare in mille modi: tifo, passione, fede, amore. È quella che c’è negli occhi chiusi di un uomo ipovedente, seduto sugli spalti dello stadio della sua squadra del cuore, il Bohemians 1905. Ha la sciarpa al collo, bastone in mano e cane fedele al suo fianco. È sempre al suo posto, nella tribuna dello Stadio Ďolíček, impianto destinato ad essere abbattuto per far posto a un centro commerciale e salvato proprio da una petizione dei suoi tifosi. Non può vedere le giocate dei suoi eroi a strisce bianche e verdi. Ma può sentirle. "Non si vede bene che col cuore”: ha spiegato così il suo segreto, citando il Piccolo Principe. Perché, nel Calcio, l'essenziale è invisibile agli occhi.
Il tifo non è cieco, al di là dell’apparenza. Ci vede e ci vede bene.
“I migliaia di morti che se ne sono andati da soli ed in silenzio? Il dolore di chi non li ha potuti nemmeno salutare? Quelle colonne di camion militari piene di nonni, figli, genitori, amici le cancelliamo con un colpo di spugna? A voi basterà fare uno spot del tipo “giochiamo per loro” o mettervi un lutto al braccio per sistemarvi la coscienza…”, spiegano nella lettera i tifosi dell’Atalanta che, nel panorama delle curve italiane, hanno la fama di essere tra i più brutti, sporchi e cattivi.
Per loro il campionato è già finito. Ma lo spettacolo deve andare avanti, The show must go on. E allora, almeno accada con la coscienza di un momento epocale.
Sognando di rivedere dietro le maglie dei campioni del cuore, quei numeri in feltro cuciti a mano dalla sarta del club, che era anche cuoca, lavandaia e una voce amica nella sua bottega al campo d’allenamento: oggi, tra il nome del giocatore e lo sponsor, di una linea tecnica avvolgente, è faticoso vedere quel numero, a volte cucito male, ma carico di storia e di ricordi. In molti sembrano scorgere il segno del dollaro.
Diceva Robert De Niro, anche se per noi la voce era quella di Ferruccio Amendola, in un film del 1966, “The Fan”: “Attendo il mio sogno con ansia, emozione. Poi applaudo e mi sbraccio per la mia formazione. È la prima giornata e la mia fedeltà è premiata da un senso di gran voluttà.
Ritorna il mio eroe ed illumina il giorno; dei miei guai per un poco si sfuma il contorno. Egli è grazia, armonia, che esalta lo stadio e riporta i miei giorni e di orgoglio m'irradio.
Dice oggi l'atleta: ‘Io gioco per me’, ci sto male a sentirlo e mi chiedo: ‘Perché?’. Non è il fan, il tifoso che paga il biglietto a far ricco e famoso il suo prediletto? Se gli parlo lui sente, ma, in realtà, non mi ascolta. Mi dimostra freddezza per l'ennesima volta. È attaccato al denaro in un modo inaudito. No, così non va bene, io rivoglio il mio mito!”.
E se c'è un momento, questo è quello giusto…
[ Fabio Argentini ]
LA LETTERA DEGLI ULTRA’ DELL’ATALANTA
“Certo perché a te, alla Lega calcio ed a tutti gli affaristi che lucrano da sempre sulla passione della gente interessa solo lo sport e il bene degli italiani… il loro futuro e la rinascita… E quello che stiamo vivendo? I migliaia di morti che se ne sono andati da soli ed in silenzio? Il dolore di chi non li ha potuti nemmeno salutare? Quelle colonne di camion militari piene di nonni, figli, genitori, amici le cancelliamo con un colpo di spugna? A voi basterà fare uno spot del tipo “giochiamo per loro” o mettervi un lutto al braccio per sistemarvi la coscienza, sempre che ve ne sia rimasta almeno uno sputo. The show must go on? Volete giocare per la gente e per gli italiani e non lo fate per i soldi? Allora fate una cosa: invece di patetiche dichiarazioni dimostrartelo con i fatti. Giocate gratis. Stipendi milionari, diritti TV, sponsor, premi lega calcio e Uefa, ogni centesimo devoluto in beneficenza a chi ha perso il lavoro, a chi ha perso un familiare, a chi ha dovuto chiudere le proprie attività e confidare nei 600€, alle società amatoriali di ragazzini che hanno dovuto rinunciare ad indossare i loro scarpini ed a vivere i loro sogni e soprattutto ai medici, agli infermieri, ai volontari, al personale degli istituti per anziani, alle commesse, ai camionisti e a tutte quelle persone che hanno continuato a lavorare e stanno continuando a farlo per consentirci di andare avanti e che magari domani torneranno ad essere precari o categorie in attesa di avere un rinnovo di contratto che attendono da un decennio. Volete bene agli italiani? Dimostratelo”.
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